I giudizi sono definizioni o determinazioni di ciò che in precedenza era indefinito, indeterminato o in qualche modo problematico.
Giudizio è una parola ambivalente. “Dovresti avere più giudizio!” – si dice a chi si vorrebbe più prudente e in grado di saper valutare e distinguere in modo accurato. “Non dovresti giudicarti così duramente” – si dice a chi troppo spesso rivolge a sé costantemente critiche ritenute troppo aspre.
La parola “giudizio” deriva dal latino iudicĭum, a sua volta derivante da iudex ovvero “giudice” (ius = diritto + decs > dicere = dire).
Il giudizio è l’atto del “giudice”, di colui che dice, di chi attraverso la parola si esprime sul diritto o meno di qualcosa, stimandone il valore.
Quando esprimiamo un “giudizio” quindi:
1) entriamo nell’ambito dell’opinione, dell’apprezzamento e valutazione personale;
2) poniamo la nostra valutazione come un verdetto, come una legge per l’altro.
In greco “giudizio” si esprime con la parola κρίσις (krisis) e deriva dal verbo greco κρίνω ovvero giudicare: di qui derivano anche le parole italiane critica, criteri, crisi.
Kρίσις vuol dire essenzialmente due cose:
– separazione
– decisione.
Così in greco “giudicare” significa sia scindere, recidere, tagliare che… scegliere: curioso no? Quando giudichiamo separiamo in una situazione ciò che ha valore da ciò che non lo ha. Così come quando facciamo una scelta inevitabilmente selezioniamo, in mezzo all’indistinto, ciò che per noi ha di valore.
Intenzione nel giudizio e ruolo del linguaggio
Il filosofo tedesco Immanuel Kant parlava di “facoltà di giudizio” come di una “speciale facoltà conoscitiva”. Il “sano intelletto” che appartiene a chi ne fa un uso “corretto. È un esercizio della ragione soggettiva e ha a che fare con il sentimento di piacere e dispiacere; è, inoltre, in rapporto con la creatività, intesa come la capacità umana di “produrre strumenti che producono strumenti”, ad esempio il linguaggio.
Brené Brown – scrittrice e educatrice, docente di Sociologia all’Università di Houston – nel suo libro “Osare in grande” propone di considerare le critiche dividendole in due tipi:
- obiezioni motivate
- critiche vigliacche, ovvero tentativi di demolire e svilire ciò che altri tentano di costruire.
Secondo Brown le critiche non sono tutte uguali perché non sottintendono le stesse intenzioni:
“Quando penso ad Aristotele – scrive Brown – immagino un gruppo di filosofi radunati in un uliveto a discutere della conoscenza e del significato delle cose. Personalmente, considero le critiche come obiezioni motivate, logiche e rispettose espresse da individui accomunati dalla passione di ampliare la conoscenza e scoprire la verità. Ai tempi dei filosofi greci, i diverbi strettamente personali e impulsivi erano visti come ostacoli alla costruzione della conoscenza. La critica era una conversazione civile tra persone che si arrischiavano a esporre le proprie idee per il bene della conoscenza. Tuttavia, perché la critica sia utile, bisogna mettersi in gioco in prima persona”.
Quello che sembra in gioco, nel giudizio e nella critica, è l’uso corretto della capacità di giudizio, una possibilità preziosa legata al linguaggio che ci permette di attribuire e stimare valore, di legiferare su qualcosa o qualcuno, di scegliere e decidere.
Giudicare significa giudicare relazioni, scoprendole o inventandole.
Il giudizio implica la relazione con l’altro. Per questo è così importante per noi quello degli altri. Essere circondati o essere governati da persone che “giudicano bene” è fondamentale per la qualità e serenità della nostra vita.
Allora, seguendo Brené Brown, una giusta critica implica un dialogo in cui ci esponiamo all’altro con vulnerabilità, ammettendo una curiosità o ignoranza di fondo (“so di non sapere”), una apertura che è anche volontà e fiducia nel cercare insieme una credenza condivisa, una verità più convincente.
La Pratica Filosofica: per un uso corretto del giudizio
Come sviluppare un uso coretto della nostra capacità di giudizio? Come capire se le critiche sono dannose e si rende necessario prendere le distanze per non essere feriti e maltrattati (o non farlo noi stessi verso chi amiamo)?
Grazie alla Pratica Filosofica ci esercitiamo ad utilizzare il giudizio in modo riflessivo grazie all’attivazione di un dialogo in cui:
- poniamo le nostre domande più profonde
- impariamo a cogliere le sfumature di significato
- impariamo a motivare i nostri giudizi e le nostre idee a beneficio di tutta la “comunità pensante”.
In questo conteso il “giudizio” è l’atto critico che permette di relazionarci in modo costruttivo con gli altri: di distinguere e confrontare i punti di vista, e di far emergere in modo autentico le differenze e riconoscere le somiglianze.
Impariamo a dialogare per indagare a quali condizioni sia possibile trovare un accordo comune.
Perché? Perché il giudizio che nasce nel contesto del dialogo filosofico è frutto della ri-flessione: è il superamento della prospettiva di pre-giudizio, un punto di vista di partenza in cui si ha cieca fiducia, attraverso la formazione di un nuovo concetto che tiene in considerazione gli elementi emersi grazie al contributo di un’altra persona.
É probabile che, nel lungo periodo, ciò che rende i buoni giudizi tali sia il ruolo ricoperto nella formazione dell'esperienza futura: sono giudizi con cui possiamo convivere e che arricchiscono la vita che ancora dobbiamo vivere.
L'attitudine alla ricerca come fondamento della libertà di pensiero
A partire dall’inciampo, dal confronto, dalla vulnerabilità, dalla curiosità gettiamo le condizioni per lo sviluppo di una personalità libera.
La riflessività filosofica coincide con il potere di essere libere.
“Imparare a pensare” non vuol dire solo sviluppare determinate abilità di pensiero (logica, analogia, induzione e deduzione, abduzione, argomentazione, etc), ma imparare a connettersi in modo più consapevole con la propria esperienza: aumentare le interpretazioni ci permette di aumentare le opzioni di azione a nostra disposizione, creando maggiore benessere nelle complessità di vita.
L’attitudine alla ricerca è l’attitudine, relazionale e conoscitiva, che ci spinge a verificare, analizzare, prendere in considerazione, creare, ascoltare, esaminare le circostanze e i pensieri in cui siamo immerse ogni giorno.
Si può considerare inoltre una “abilità democratica”, perché aumenta il senso di responsabilità nel portare il nostro punto di vista nel mondo, nelle nostre relazioni come nella vita pubblica, come individui e cittadine attive e partecipi.